Ella sulle onde: la storia di un viaggio da affrontare

Ella sulle onde” è un albo illustrato che racconta la storia di un viaggio da affrontare. Ella parte su una piccola barca, che diventa la storia per ritrovare la felicità, la storia che parte da una notte buia, un momento triste, e da lì la necessità di cercarsi.

Spesso la metafora del viaggio viene usata in psicologia proprio perchè legata alla fasi in cui un viaggio si vive: partenza, percorso e arrivo. In questo albo sono tutte presenti e penso che ognuno di noi possa trovare la sua parte di viaggio. Iniziamo.

partenza

Ella si trova in un luogo privo di luce, è da sola seduta su una piccola nave e ha paura. Penso a tutti i bambine e le bambine, le ragazze e i ragazzi, le famiglie che vedo per lavoro e che spesso si sentono soli, abbandonati e brancolano nel buio per capire dove trovare le risposte che cercano. In questi momenti non c’è il dinamismo che spesso si associa al viaggio, ma c’è la staticità, il sentirsi immobile. La partenza non sempre viene da una spinta, a volte nasce proprio dal vedersi fermi.

Vedo che non mi sento meglio, vedo che a scuola non miglioro, vedo che non mi sento tranquillǝ, vedo che non stanno cambiando le mie relazioni, vedo che gli altri si muovono e io sono fermǝ.

percorso

Ella viene invitata a partire da un uccello bianco, o meglio a continuare il suo viaggio. Questo personaggio la accompagna, non la costringe, non la tira, non la tiene per mano, ma accompagna da lontano.

Penso a quante volte le persone, i bambini e le bambine, si trovino in una situazione di paura, di solitudine, in momenti dolorosi della loro vita o semplicemente in momenti in cui tutto sembra fermo. A volte è sufficiente trovare qualcuno che ci accompagna dall’alto, che segue i nostri passi dalla giusta distanza: può essere un insegnante, un amico, un terapista…e su questo mi soffermo un attimo.

creative photo of person holding glass mason jar under a starry sky
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Occuparsi di salute mentale non significa mai e poi mai sostituirsi. Non significa dire le cose più comode da fare o dire quello che fa piacere. Occuparsi di salute mentale significa mantenere la giusta distanza per mostrare nuove strade e nuove prospettive. Il buio non si scaccia all’improvviso con una luce accecante, si fa strada con un piccolo lumino, non dobbiamo spaventare, ma dare la giusta intensità di luce al cammino che proponiamo.

Nella pratica non possiamo solo soffermarci sul risultato finale che vorremmo ottenere (migliorare l’attenzione, essere più felici, migliorare l’apprendimento scolastico…), ma dobbiamo partire da come ci si sente ora, dalle abilità che possiamo usare da subito, e da lì sviluppare…il nostro viaggio.

una balena lungo il percorso
Ella sulle onde la storia di un viaggio da affrontare

Verso la metà del viaggio, Ella è sconsolata, qualcuno l’ha aiutata ad andare avanti, altri invece l’hanno ostacolata, ma poi incontra una balena. Meglio, la balena va verso il cammino di Ella. Durante il percorso c’è la casualità, ma spesso c’è anche l’intenzione di aiutare.

L’intenzione nell’aiuto deve essere sempre da entrambe le parti: chi aiuta e chi viene aiutato. Balena spiega come può aiutare Ella, ed Ella si fida e si lascia aiutare.

Quando si inizia un percorso terapeutico o di riabilitazione, la prima parte, la più importante, è quella di definire gli obiettivi, spiegare in cosa consiste il nostro aiuto. Balena però può essere anche una persona che porta la sua esperienza “di chi ha navigato per tanto tempo nell’oceano”, e la sua esperienza, è diversa da quella di Ella ma ne conosce più sfumature, ne riporta una storia. Ella trova in balena, un aiuto che non solo la sostiene, ma che la fa sentire compresa. Ciò non significa che un professionista per la salute mentale debba passare tutte le difficoltà dell’altro, ma che deve conoscere le proprie emozioni, le proprie fatiche ed i propri limiti (diffidate sempre da chi si occupa di tutto! come si fa a solcare l’oceano e a comprendere anche le montagne?).

arrivo
Ella sulle onde la storia di un viaggio da affrontare

Ella durante il percorso incontra personaggi ed emozioni spaventose. Ella resta seduta sulla sua barchetta in preda alle onde fino a quando non scorge l’arrivo. Un luogo con tante persone che stavano navigando come lei. Di persone che erano a fianco a lei sulle proprie barchette per arrivare sull’isola in cui si trovano tutti ora.

Non sappiamo se questa isoletta si l’arrivo, o solo un primo arrivo…o forse il secondo o il terzo.

Il viaggio per comprendersi, per raggiungere un obiettivo personale, per sentirsi meno affaticati, può avere moltissime tappe, moltissimi arrivi. La cosa principale è ricordare ogni parte del viaggio, ricordare la disperazione del buio, il sollievo dell’aiuto, il dubbio davanti alle onde potenti, la luce che di rende più chiaro il percorso.

La cosa principale di ogni viaggio è davvero il viaggio stesso.

Questo albo illustrato non toglie niente, non rende tutto bello, mostra le difficoltà e i momenti di delusione. Ogni volta che intraprendiamo un percorso per la salute mentale dobbiamo dire anche queste parti: la fatica del cambiamento, le cose che potrebbero cambiare durante il percorso, le eventuali ricadute causate da eventi o persone specifiche. Questi si chiamano fattori precipitanti, come quelliche fanno precipitare le persone dalle navi…ma ci sono anche i fattori protettivi, come la balena che ci sostiene mentre stiamo per cadere.

Ecco penso che questo albo sia meraviglioso per illustrare un nuovo viaggio per la salute mentale da effettuare insieme.

Approfondimenti

https://www.stateofmind.it/2019/09/viaggio-psicologia/

https://www.terre.it/prodotto/ella-sulle-onde/

Perché parlare di fiducia in sé stessi “self confidence” e non di autostima

Pixabay

Il termine autostima è sempre fra le parole più usate, e abusate, quando una persona non si percepisce “abbastanza bravǝ” per fare qualcosa. Si parla di percorsi per “aumentare l’autostima”, corsi per “insegnare l’autostima”, ma siamo davvero sicuri che sia il percorso giusto per farlo? Siamo sicuri che per aiutare unǝ bambinǝ o unǝ ragazziǝ abbiamo bisogno di aumentare un valore numerico che lui o lei vuole darsi? Ecco io vorrei iniziare a parlare di : fiducia in sé stessi.

la fiducia in sé stessi non si insegna ma si sperimenta

Primo punto fondamentale: non si insegna in 10 sedute l’autostima; “è infatti difficile accrescere l’autostima di un individuo, poiché è stato dimostrato come essa è altamente resistente al cambiamento” (Swann, 1996). Quindi capite che se è resistente al cambiamento, allora non la posso “insegnare”, non si modifica con alcuni esercizi creati in modo specifico a tavolino.

Il concetto di “autostima” è un concetto multidimensionale, contiene la stima che ho di me e del mio corpo, di me nella mia famiglia, di me con i miei pari, di me nella mia vita scolastica o professionale. Questa particolarità sottende quanto si formi sin da bambini questo concetto…concetto però che è altamente giudicante. Pensate a unǝ bambinǝ che impara un nuovo gioco, sarà felice e si dirà che è un ottimǝ giocatore o giocatrice, che è migliore degli altri… questo però metterà gli altri in una situazione di inferiorità agli occhi del bambinǝ. Pensate se lo stessǝ bambinǝ un giorno perdesse allo stesso gioco, non sarà solo sfortuna o qualche errore commesso che ha stabilito il risultato… sarà la persona stessa a perdere il proprio valore e a valutarsi in modo negativo.

“Ti cerco ti trovo” ed. Camelozampa

Il concetto di autostima in questo modo intacca l’individualità della persona, fa sì che la persona stessa dia una “stima” numerica a ciò che fa e quello che fa, diventa quello che è. La persona diventa un giudizio, la persona diventa un numero da incasellare e perde il suo valore di complessità. Proprio per questo penso che il termine autostima, sia da sostituire, perchè al suo interno nasconde giudizi negativi verso di sé, e la minima possibilità di cambiamento.

alcune ricerche

Secondo le ricerche le situazioni in cui la ricerca di validazione di sé dipende da conferme altrui hanno costi personali particolarmente alti (Crocker, 2002; Pyszczynski, Greenberg e Goldenberg, 2002); in età adulta, l’autostima è costituita prevalentemente da giudizi e confronti con l’esterno (Coopersmith, 1967; Harter, 1999). L’autostima si basa moltissimo sul giudizio degli altri, su come mi vedono, sul giudizio che mi danno, sulle caratteristiche che gli altri vedono in me (Cooley, 1902, 1956; Mead, 1934). Il confronto sociale è quindi fattore determinante aggiuntivo nell’autostima (Aspinwall e Taylor, 1993; Beach e Tesser, 1995; Buunk, 1998; Deci e Ryan, 1995; Suls e Wills, 1991). Insomma oltre ai giudizi individuai che costruisco personalmente nell’arco di vita, si aggiungono anche tutti i giudizi sociali per cui sappiamo che spesso creano pregiudizi che se interiorizzati, diventano un freno per la persona e possono poi diventare stigmatizzanti ( ne avevo parlato qui https://www.serenaneri.it/pregiudizi-sulla-salute-mentale/).

Con questo primo punto per cui si sperimenta ogni giorno la crescita personale, penso davvero sia necessario parlare di fiducia in sé stessi “self confidence” e non di autostima

parlare di fiducia in sé stessi “self confidence” e non di autostima

Se parliamo di fiducia in sé stessi intendiamo sempre un costrutto formato da più aspetti, ma leggete la differenza fra prima (quanto sono bravo nel gioco, quanto valgo come studentǝ, …) e ora:

Quanta fiducia ho delle mie emozioni? Riesco a riconferme e gestirle? Quanta fiducia ho nelle mie abilità? Penso di riuscire a superare un errore, qualcosa che non va come pensavo? Ho fiducia nella mia capacità di risolvere i problemi che incontro ogni giorno?

La self confidence, è molto di più del termine autostima, è un ragionamento attivo, è metacognitivo (devo pensare al modo in cui io affronto le cose ogni giorno), è un processo che non dà una stima numerica, ma aiuta nel crearsi un dialogo interno attivo, positivo e non giudicante!

nella pratica…
parlare di fiducia in sé stessi “self confidence” e non di autostima
  • Riconosci e sottolinea i tuoi punti di forza.
  • Premiati e lodati per i tuoi sforzi e progressi, durante tutto il percorso, non solo per il tuo risultato finale!
  • Quando fai un errore, tratta te stessǝ con gentilezza, non soffermarti solo sul fallimento.
  • Stabilisci obiettivi realistici e raggiungibili. Non aspettarti la perfezione; è impossibile essere perfetti in ogni aspetto della vita.
  • Pensa alle tue capacità prima di iniziare un qualsiasi compito.
  • Esprimi i tuoi sentimenti e bisogni

Pensate se fin da bambinǝ riuscissimo a capire di rivolgerci a noi stessiǝ in modo gentile (non dire “sei stupidǝ” ma “questa volta non ho fatto un buon compito, la prossima volta farò più attenzione durante lo studio”), se iniziassimo a dire ai bambinǝ non solo bravǝ per il risultato finale, ma per il processo che lo ha condotto lì (hai avuto pazienza quando il colore non andava, hai rispetto in modo gentile al compagno, hai fatto una pausa quando sentivi la rabbia crescere…). Si iniziassimo a prendere confidenza con i nostri limiti, con il fatto che va bene anche non sapere fare delle cose, va bene se non siamo i più bravǝ a correre o a leggere o a socializzare, sono dei limiti che posso voler modificare o accettare per quello che sono, perchè io resto io, anche se non faccio sport o se non ho i voti migliori.

Notate come tutte queste attenzioni rendono la fiducia in se stessi una chiave fondamentale per lo sviluppo della persona? Per questo è importante parlare di fiducia in sé stessi “self confidence” e non di autostima.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

“La self- compassion: il potere di essere gentili con se stessi” Kristin Neff

“Il self handicapping. Strategia di presentazione di sé” Mazzoleni, Pedroni

“The Self-Compassion Workbook for Teens: Mindfulness and Compassion Skills to Overcome Self-Criticism and Embrace Who You Are” di Karen Bluth e Kristin Neff 

https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/13576500444000317

https://journals.francoangeli.it/index.php/modelli-mente-oa/article/view/3442

Comunicare e condividere i percorsi riabilitativi con bambini e ragazzi

Spesso nei corsi di formazione, nei manuali, si spiega come comunicare alla famiglia le diagnosi e i disturbi, ma è fondamentale comunicare e condividere i percorsi riabilitativi e le diagnosi anche con i bambini e i ragazzi.

Il termine che viene utilizzato per definire questa capacità è self-advocacyLa capacità di un individuo di comunicare, trasmettere, negoziare o affermare efficacemente i propri interessi, desideri, bisogni e diritti. Implica prendere decisioni informate e assumersi la responsabilità di tali decisioni” (VanReusen et al., 1994).

Lavorare assieme ai bambini e ai ragazzi significa anche renderli partecipi del loro percorso, spiegare cosa stanno facendo e la motivazione. La consapevolezza del fare certe attività o certi discorsi, permette alla persona di riflettere sul suo discorso, sempre tenendo in mente l’età e lo sviluppo emotivo e cognitivo personale. Ora vorrei condividere con voi qualche esempio che spesso mi è stato utile per spiegare a bambini e bambine, un disturbo, una fragilità o il perchè del percorso che avremmo iniziato insieme.

PARTIAMO DAGLI ALBI ILLUSTRATI

Uno degli albi illustrati che preferisco in assoluto è “Un trascurabile dettaglio” edito da Terre di Mezzo e scritto da Anne Gaelle Balìe e Cisl.

In questo albo il protagonista ha un difetto che non gli consente di scrivere e leggere bene e a causa del quale viene messo spesso in punizione e fatica a trovare amici che lo comprendono. Poi arriva un dottore, un dottore che con una “formula magica” rende quel difetto un trascurabile dettaglio che non è più ingombrante, non dà più fastidio ma diventa semplicemente parte della persona.

Questo albo si presta moltissimo con bambini e bambine che hanno un Disturbo dell’apprendimento (DSA), proprio perchè si rispecchiano nel protagonista. Può essere letto in condivisione per poi riflettere su quale “filo” , rende difficoltoso imparare (la lettura lenta, la difficoltà nei calcoli, la scrittura poco comprensibile…), quanto questo filo sia davvero ingombrante e spiegare quali strumenti possono aiutarci a rendere questo filo sempre più piccolo, meno ingombrante, meno invadente.

In questo albo possiamo trovare tanti ganci con la realtà emotiva o rispetto all’ambiente che circonda i bambini.

uno strano elettrodomestico

A volte ascoltando e parlando con bambini e ragazzi, ci accorgiamo che ci sono strumenti quotidiani che si prestano ad essere ottime metafore… come è accaduto a me con il robot aspirapolvere. Esatto, quel piccolo elettrodomestico che aspira i pavimenti, girando autonomamente per casa.

Questo strumento, può essere preziosissimo per spiegare che ci sono strumenti che ci aiutano a svolgere un compito in meno tempo e con meno fatica; uno strumento che tutti vedono ma che nessuno considera qualcosa di sbagliato. Ho usato più volte questa metafora per spiegare perchè è importante usare degli strumenti compensativi ( computer, tavola pitagorica, o anche un semplice memo sul telefono per ricordare gli appuntamenti senza ansia!). Ragionare su ciò che ci circonda, ci permette di vedere tutto in un’ottica nuova, più normale, rassicurante e concreta allo stesso tempo.

cervello e lampadine

Ogni disturbo, ogni fragilità, ogni emozione, parte dal cervello. Occorre spiegare a bambini e ragazzi come è fatto il nostro cervello, perché pensiamo, o ci comportiamo in un certo modo, cosa succede quando siamo in ansia, o arrabbiati o preoccupati, ed ecco altri due libri che possono aiutarci a spiegare come funziona il nostro cervello e che in noi, non c’è nulla di sbagliato:

C come cervello” Nomo edizioni

cosa c’è nella mia testa?” Il Castoro

Il punto sul “sentirsi sbagliato” è fondamentale per condividere progetti. Non dobbiamo “aggiustare, cambiare” dobbiamo condividere che possiamo aiutare a sentirsi più autonomi, più efficaci, sentirsi sicuri di sé, diminuire la fatica nel svolgere un’attività o dare più strumenti per poter scegliere ciò che è meglio, ciò che piace.

Spiegare prima di ogni attività il motivo per cui si fa, il modo con cui la faremo, rende partecipe l’altra persona, non subisce qualcosa di già deciso, non si sente uno spettatore, ma un attore del proprio percorso.

Di seguito lascio una rfiflessione nata durante un colloquio qualche anno fa, la lascio proprio così, perchè spiegare in modo semplice richiede uno sguardo attento, creatività e tanta conoscenza reale di ciò che di cui stiamo parlando.

“Serena, perché leggo più lento dei miei compagni di classe?”

Dentro il tuo cervello ci sono tante LUCINE come quelle che metti sull’albero di Natale hai presente?!
Sono tutte unite in fili e la cosa bella è che quando ne accendi una accendi anche tutte le altre. 
Ad esempio quando stai attento e ascolti la maestra ricordi quello che dice e questo accende un sacco di lucine. 
“È vero, sono bravo ad ascoltare! Anche le storie!”

Quando leggi più lento vuol dire che una lucina si accende più lentamente delle altre quindi fa un po’ fatica a fare luce. A volte basta l’allenamento e poi la lucina si accende veloce come le altre, altre volte invece la lucina rimane un po’ più lenta in questo caso si chiama dislessia. 
Non è un problema tuo non è che non sei motivato, o che non ti impegni abbastanza, semplicemente quella lucina è nata così… 

Ma sai qual è un’altra cosa bellissima del nostro cervello? E che quando accendi una lucina si accendono anche tutte le lucine dello stesso filo quindi ad esempio se tu stai molto attento diventi più curioso e quindi impari più parole e riesce a spiegarti meglio e trovi tanti modi per risolvere i problemi. 

In ogni caso ricordati che tu puoi sempre aggiungere altre lucine ai fili, che quindi non faranno più vedere la lucina fioca, ma tutti insieme mostreranno una grande luce.

Il gioco in riabilitazione

giocare oltre le regole: progettare e divertirsi durante le attività

Il gioco in riabilitazione è uno strumento fondamentale per motivare i bambini e per raggiungere veri obiettivi riabilitativi. Ma andiamo con ordine.

perchè il gioco in riabilitazione?

La riabilitazione in età evolutiva, cioè con bambini e ragazzi, può avere varie caratteristiche:

  • può potenziare delle abilità presentii parte o in modo non sufficiente ( attenzione, memoria, pianificazione di una serie di attività),
  • può abilitare nel caso non siano presenti alcune specifiche abilità come ad esempio la capacità di condivisione o di relazione reciproca

In ogni caso la scelta del tipo di obiettivo avviene dopo una valutazione delle abilità specifiche della persona sia attraverso test, che attraverso un’attenta osservazione.

Il gioco è uno strumento fondamentale in riabilitazione perché dentro il gioco possiamo trovare storie, strumenti, agire sulla relazione e sulle singole abilità cognitive (attenzione, memoria, logica…) e assieme a questo il divertimento, la relazione interpersonale e la possibilità di mettersi alla prova attraverso situazioni nuove e che possono ripresentarsi nella vita di tutti i giorni.

Come organizzare il gioco in seduta

La prima cosa da fare è sempre pensare all’obiettivo che si intende raggiungere nell’intervento, sia nel lungo termine che nel breve termine, da qui si inizia a pensare a quale sia il gioco più adatto anche in base al desiderio e a ciò che piace alla persona.

Attenzione! Ogni gioco può essere adatto a un obiettivo perchè ciò che fa la differenza è il modo in cui lo pensiamo, e soprattutto i modi che ci aiuteranno a gestire gli errori e le difficoltà che possono emergere durante il gioco ( di errori ne avevo già parlato qui https://www.serenaneri.it/imparare-a-sbagliare-gli-errori-come-modello/) .

Prima di iniziare un gioco è importante pensare ai pre-requisiti, cioè a quelle caratteristiche che sono indispensabili per poter giocare. Ad esempio se è un gioco sulla turnazione, occorre che il bambino o la bambina conoscano l’alternanza del turno, se c’è un dado occorre che conoscano i numeri fino a 6… in caso contrario si può pensare a un dado con i colori e non coni numeri o di un’attività che aiuti nella conoscenza base di questa abilità.

gestire le difficoltà

Pensare a come gestire le difficoltà è un’altra parte fondamentale del gioco: in che modo correggere il bambino o la bambina davanti a un errore? Occorre dare un aiuto verbale o attraverso l’esempio e il comportamento?

Guardate ad esempio la foto qui sotto: come possiamo correggere questo errore nel posizionamento delle carte? Ma soprattutto quale sarà il metodo migliore perchè poi questa correzione possa essere generalizzata anche in altri contesti ed apprendimenti?

Possiamo ad esempio mostrare un modello della nave, indicare al bambino di riguardare con attenzione ciò che ha fatto, staccare leggermente le carte posizionate in modo errato e riprovare. Tutte queste modalità che richiamano le tecniche comportamentali più conosciute (modeling, shaping) sono corrette, ma vanno scelte capendo ciò che può servire di più alla persona. Questo significa anche riflettere a come può riproporre successivamente quella strategia in altri contesti.

Giocare in terapia deve sempre essere accompagnato al divertirsi, solo in questo modo stimoleremo la motivazione, l’attenzione e le capacità necessarie per poter potenziare anche le abilità superiori… e poi divertirsi fa un gran bene anche a noi adulti!

Se siete interessati a questo argomento, qui sotto trovate un link a Ko-fi e attraverso un piccolo caffè potete trovare un pdf in cui trovare altre informazioni sul gioco

Raccontare la propria storia

Scritto e illustrato da me di Liniers, Terredimezzo Editore

Raccontare la propria storia, raccontarsi agli altri, è forse la cosa più difficile da fare, specie se si è un bambino.

Di solito chiediamo ai bambini cosa sanno fare o cosa non sanno fare, cosa piace e cosa non piace, ma non chiediamo mai di raccontarci una storia. Magari chiediamo che ci raccontino cosa hanno fatto, ma le loro storie immaginarie, o i loro racconti personali li ascoltiamo davvero?

Quando si lavora assieme ai bambini in un contesto riabilitativo, di cura e di relazione, non possiamo non stare ad ascoltare le loro storie, o meglio è nostro dovere chiedere di raccontarcele, con pazienza, con tempo, con sensibilità soprattutto senza giudizio!

Scritto e illustrato da mehttps://www.terre.it/?s=scritto+e+illustrato+da+me è un ottimo esempio di come nasce una storia, di quante domande la creano e di come l’idea di giusto e sbagliato o di bello e brutto, siano davvero soggettive e a volte anche un po’ inutili rispetto alla bellezza e alla pienezza di una storia ben raccontata e significativa.

Appena ho letto questo libro l’ho pensato come ci siano tantissimi aspetti visibili in questo libro, aspetti che solitamente sono difficile da rendere reali durante le attività.

le parole che prendono forma

Un libro che dichiara pensieri ed emozioni come: rimanere a bocca aperta, scritto in blu! Quel cambio di colori, quelle sottolineature, quanta realtà e concretezza. Queste pagine possono aiutarci proprio a metterci in ascolto delle sensazioni che le storie degli altri, ma anche la nostra storia, può far nascere all’improvviso.


“Che ne dici, li tiriamo fuori di lì?”

Il fumetto: quella strana nuvoletta disegnata che può mostrare graficamente pensieri o parole, quella linea che spesso viene bistrattata con “solo un fumetto dai!” ma che invece racchiude, è proprio il caso di dirlo, racchiude le parole che pronunciamo. Accade spesso che come attività terapeutica si chiede ai bambini e ragazzi di scrivere qualcosa di sé, o di disegnarsi; questo però può essere un ostacolo perchè i bambini sentono spesso che ciò che producono viene giudicato, ma questo libro può aiutarli a mettersi in moto, ad avere un segno visibile del fatto che è possibile scrivere una storia, ed è possibile che sia bellissima perchè: guardiamo il processo e non il risultato!

Con questo libro così buffo quanto profondo, ricovriamoci che quando chiediamo che ci venga raccontata una storia, la storia personale, sono i singoli passaggi che fanno la differenza e danno unicità al tutto, che rendono quella storia davvero personale.

…e c’è anche qualcosa in più…

Alla fine del libro ci sono anche dei preziosi consigli per gli adulti su come guidare la lettura e con il consiglio migliore di tutti: DIVERTITEVI!

Imparare a sbagliare: gli errori come modello

Siamo stati cresciuti ed abituati a vivere l’errore come un fallimento, ci hanno insegnato  che sbagliare vuol dire non impegnarci abbastanza e che gli errori il più delle volte, sono solo colpa nostra, non siamo mai riusciti a vedere gli errori come un modello, non abbiamo davvero imparato a sbagliare.

Qualcuno ha provato a spiegarci che a volte si impara proprio dai propri errori.

Abbiamo letto libri, visto film in cui i protagonisti hanno vissuti i propri errori in modo positivo e ne sono risorti, e altri che sono stati schiacciati dai propri errori.

Ma in riabilitazione spesso gli errori sono ciò che ci aiuta fare una diagnosi, ci dicono cosa non funziona come dovrebbe. Alcuni errori derivano da un disturbo  neurobiologico, altri invece da difficoltà che trovano le loro radici in apprendimenti non corretti, e non mi riferisco solo ad apprendimenti a livello scolastico ma anche di tipo relazionale ed emotivo.

In ogni caso l’errore diagnosticato ci dice le difficoltà ma non è sufficiente per capire come e quale passaggio possiamo potenziare o riabilitare per aiutare la persona che ho davanti.

Possiamo creare assieme a loro un modello! Sì come il carta modello che si usa per tagliare i vestiti, un modello che serve come base ma che poi si può modificare a seconda delle necessità!

Cosa possiamo fare per questi bambini e ragazzi, per comprendere realmente il loro errore? Possiamo creare assieme a loro un modello! Sì come il carta modello che si usa per tagliare i vestiti, un modello che serve come base ma che poi si può modificare a seconda delle necessità!


 Ma c’è un altra funzione dell’errore che mi preme, ed è quando l’errore lo compiamo noi adulti ( in famiglia, sul lavoro, con gli amici…) e magari riusciamo anche a spiegare il perchè è stato commesso quell’errore ma spesso il problema è chiedere scusa.

La maggior parte di errori comunicativi deriva proprio dalla difficoltà o dall’incapacità di riuscire a chiedere scusa, dal fatto che abbiamo ancora quel pensiero disfunzionale che ci limita e ci impone di pensare che il nostro errore è un fallimento.

Quando parlo con gli adolescenti del come vivono i propri errori a scuola, ad esempio, il problema maggiore è sempre legato al “cosa penseranno gli altri” ed è lo stesso pensiero che ho avuto io e che ancora ogni tanto giunge alla mia mente quando qualcosa non va come avevo desiderato.

Ecco qual’è la nostra percezione dell’errore, è legata al giudizio che gli altri potrebbero avere su di noi…attenzione: potrebbero! Perché c’è un altro pensiero in agguato in queste situazioni, l’avere la certezza che davvero quell’errore possa cambiare il pensiero che gli altri hanno su di me.

Ma se penso al motivo dell’errore e sono capace di spiegarlo in modo adeguato tutti questi pensieri non hanno più senso e posso dare a quello sbaglio la giusta dimensione: un piccolo passo falso e non un intero cammino sbagliato.

Ecco qual’è la nostra percezione dell’errore, è legata al giudizio che gli altri potrebbero avere su di noi

Cerchiamo sempre di più di non fermarci agli errori come sbagli ma come linee guida per costruire nuovi modelli.